Narges Mohammadi, nata a Zajan, provincia nord-occidentale dell’Iran, laureata, ironia della sorte alla Imam Khomeini International University a Qazvin, un'università internazionale fondata dopo la rivoluzione islamica, braccio destro della prima iraniana insignita del medesimo premio, l’avvocata Shirin Ebadi, è stata insignita del Premio Nobel per la Pace 2023.
L’attivista è in prigione, dove sconta una condanna a 11 anni e 11 mesi di carcere. Il premio sostiene la lunga lotta di coloro che stanno soffrendo e pagando anche con la vita, per i diritti umani in Iran. Il Premio Nobel assegnato a Mohammadi simbolicamente riconosce l’impegno del movimento di popolo “Donna, vita, libertà”. Mohammadi è impegnata nel campo dei diritti umani dal 2016, è stata incarcerata frustata e la stessa sua salute messa a rischio. La famiglia, il marito, l' attivista Taghi Rahmani, e i gemelli, Kiara e Ali non hanno che scarse notizie, e non la incontrano da anni.
La sua incrollabile e instancabile resistenza la rende simbolo della lotta delle donne iraniane all’indomani delle proteste di piazza in Iran scatenate dall'arresto e morte di Masha Amini ai primi di settembre del 2022. La ragione di tanto accanimento nei confronti delle donne e delle ragazze che rifiutano di indossare il chador, risiede nell’accusa che il regime rivolge alle donne ribelli. Non commettono solo un reato contro la morale o la legge islamica della repubblica iraniana: le manifestanti sono accusate del grave reato di moharebeh, essere nemiche di Dio.
La Guida suprema Khamenei definisce la protesta e l’assegnazione del Nobel come “una cospirazione dei paesi che vogliono indebolire la forte Repubblica Islamica”, e i manifestanti “al servizio di un piano diabolico dei nemici”. Ha ribadito l’accusa più grave nei confronti delle donne e in Iran questo genere di accusa può significare la pena di morte. Il moharebeh è usato ormai da decenni per mantenere il controllo autoritario sulla popolazione, e per infliggere pene spropositate contro infrazioni pericolose per la stabilità politica.La crisi profonda che ha colpito il paese dopo la pandemia di Covid, la mancanza di prospettive per il futuro, in particolare per le generazioni che non conoscono altro mondo che la Repubblica sciita e il suo modello di società, ha alimentato proteste e rabbia e la conseguente repressione fatta di torture, processi sommari e condanne a morte.
La rivolta attuale ha radici profonde nella società iraniana, e le proteste precedenti, che Narges Mohammadi ha vissuto da protagonista, secondo Ali Fathollah-Nejad, studioso iraniano dell’American University di Beirut, hanno innescato un processo forse rivoluzionario coinvolgendo le generazioni più giovani. Il sistema di governo islamico è permeato di ipocrisia sin dai primi anni della Rivoluzione, osserva la studiosa Sara Bazoobandi del German Institute for Global and Area Studies, ha sempre manipolato e oppresso il popolo iraniano, attraverso la propaganda.
Il controllo della comunicazione e della diffusione di notizie si è rotta con le vicende attuali. Il 60% della popolazione in Iran è under 40, e oggi la generazione Tik Tok ha una connettività totalmente differente, guarda via internet mondi diversi e elabora una idea di paese in cui vivere, aspettative e progetti di vita opposti all’attuale mondo religioso e islamico. Nelle città iraniane si susseguono piccole iniziative, sparse e diffuse nei quartieri, nelle stazioni delle metropolitane, nei bazar e in ogni luogo di studio e lavoro, a volte di notte, segnali della volontà di riconquistare voce e visibilità.
Un futuro diverso sogna la generazione di ragazzi e ragazze che con profonda disperazione, bruciano veli e si tagliano capelli in segno di lutto, sfidando la morte e l’incessante violenza del regime. Il Premio Nobel per la Pace nel nome della speranza di un nuovo inizio per l’Iran e il suo popolo ci invita a sostenere l'attivista incarcerata e in sciopero della fame: Zan, Zendegi, Azadi, per Narges Mohammadi.